▼“Poco, mi serve.
VELIMIR CHLEBKINOV
Una crosta di pane,
un ditale di latte
e questo cielo
e queste nuvole.”

Aura Poetica nasce da un ricordo. Da un'esperienza viva, condivisa, irripetibile.
Per cinque anni, una piccola libreria è stata il cuore pulsante di un'avventura dedicata alla poesia e alla letteratura. In quel luogo intimo e accogliente, lettori e lettrici si sono ritrovati per dare voce ai versi, per abitare le parole, per trasformare il tempo in ascolto.
Le iniziative sono state molte: presentazioni di libri, circa una trentina di mostre d’arte, incontri culturali e momenti di intensa condivisione. Questa pagina vuole ricordare in particolare le poesie lette dai frequentatori della libreria, l’installazione poetico-pittorica "Linguaggi" e lo spettacolo teatrale "Un libro di pietra".
C’è qualcosa che accade solo una volta, eppure continua a vibrare oltre il tempo. Un’apparizione lieve, come una luce che non chiede di brillare ma di essere vista. Così è stata questa esperienza: unica, irripetibile, eppure presente ancora. Una traccia silenziosa che non svanisce, ma abita — dentro, altrove. E tuttavia, anche ciò che lascia una traccia cambia. Gli attimi vissuti non possono tornare come sono stati. Ne rimane una forma, ma non più l’intensità. Il ricordo ci accompagna, ma non restituisce l’esperienza: la sfiora, la evoca, ma è già altro. Col tempo, ciò che era pieno si fa leggero, come un profilo che il vento sfuma. Non è una perdita, è un passaggio. E se a volte sembra che quei momenti ci raggiungano ancora, è solo perché hanno lasciato in noi un segno quieto, che continua a risuonare senza far rumore.
Aura Poetica nasce da quel segno: non per conservare ciò che è stato, ma per accoglierne la risonanza nel presente. Non un museo del passato, ma uno spazio che ne raccoglie l’eco e la rinnova in forme altre. Un invito a rallentare, a sentire, a lasciarsi attraversare da una poesia che non intrattiene, ma sussurra, affiora, trasforma.
Qui ogni parola è scelta, ogni voce lascia un'impronta, ogni immagine dischiude un varco. Non c’è rumore, solo ascolto. Non c’è fretta, solo presenza.
Chi ha abitato davvero quel luogo, potrà riconoscere un’ombra familiare. Chi lo ha soltanto sfiorato, non saprà vederla. Chi vi entra per la prima volta, troverà forse una soglia da attraversare.
Benvenuti in Aura Poetica.
Dove la memoria si fa voce. E la voce, ancora, poesia.
Caricamento...
Un libro di pietra
Un libro di pietra è un monologo teatrale intenso e lirico scritto dalla professoressa Loredana De Luca, portato in scena con la regia e l’impostazione musicale di Alessandro Elia. Lo spettacolo restituisce voce e dignità a Fernando Oreste Nannetti, internato nei manicomi italiani dal 1959 al 1973, e autore di un’opera incisa con una fibbia di cintura sul muro del padiglione Ferri dell’ospedale psichiatrico di Volterra: settanta metri di graffiti, un vero e proprio libro di pietra.
È la storia di un uomo recluso per gran parte della vita, dapprima in orfanotrofio, poi in carcere, infine in manicomio. Un’esistenza vissuta in solitudine e costrizione, nella segregazione istituzionale e nel silenzio forzato. Nannetti, che si firmava NOF 4, trasforma la parete di un manicomio in uno spazio di resistenza poetica, di affermazione personale e libertà espressiva, creando un’opera criptica e magnetica, scritta in un linguaggio tutto suo, fatta di segni spigolosi, frasi continue, bustrofediche, graffiate nella pietra come gesto ultimo di esistenza.
Il monologo indaga la condizione di chi è stato escluso, dimenticato, rinchiuso. Le parole di Nannetti — e le parole su Nannetti — si intrecciano a momenti poetici e visionari, con intermezzi recitati tratti dalle opere di Velimir Chlebnikov, José Saramago ed Emily Dickinson, che amplificano l’eco universale della sua esperienza.
La scena è attraversata da un tema centrale: cosa significa “entrare fuori”? Quali ferite lascia in un essere umano la lunga permanenza in un luogo che annienta l’identità e la volontà? E cosa accade quando quel luogo svanisce, ma le sue mura restano dentro di noi?
L’opera racconta un uomo che scrive, che incide, che grida attraverso la pietra: un uomo solo, ma irriducibile. Nannetti non solo descrive il mondo che lo circonda, ma ne inventa uno alternativo, fatto di viaggi intergalattici e gerarchie astrali, dove diventa “colonnello minerario astronautico nel sistema mentale” — un’epopea intima, personale, e insieme collettiva.
Un libro di pietra è un tributo alla parola come forma di resistenza, alla scrittura come atto di esistenza, e alla memoria come atto politico. È un invito a guardare con occhi diversi ciò che la società ha nascosto dietro le sue mura — e ad abbattere quei muri, uno sguardo e una parola alla volta.
Le musiche che accompagnano lo spettacolo sono state scelte con grande cura e provengono da artisti profondamente evocativi: Ghinzu, Archive, Mikis Theodorakis, Politics Deep, Stomu Yamash'ta e Max Richter. I loro suoni profondi, talvolta sospesi e struggenti, dialogano con le parole del monologo e con le voci poetiche che ne punteggiano la narrazione.
Lo spettacolo è stato rappresentato all’aperto in due occasioni, in forma itinerante e partecipata, con interpretazioni dal vivo, musica e pittura estemporanea che si sono intrecciate alla narrazione. Un’esperienza intensa e coinvolgente, che ha trasformato lo spazio in un luogo di ascolto e visione condivisa, dove parola, suono e gesto pittorico si sono fusi in una narrazione viva, capace di evocare con forza la presenza e la voce di chi è rimasto ai margini.
Poco, mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo e queste nuvole.
Io non porto cappelli signorali,
io non porto calzari signorali,
il chiaro cielo è il mio cappello,
la grigia terra le mie scarpe.

“La fai facile tu… ma tu non puoi sapere quanto sia difficile per noi entrare fuori” sono le parole con cui un internato del manicomio di Santa Maria della Pietà esprimeva la difficoltà di ritornare a vivere al di fuori dello spazio chiuso del manicomio, di entrare in uno spazio di libertà, fuori dal recinto nel quale aveva sempre vissuto.
Quell’entrare fuori lo inquieta e lo disorienta: aver trascorso la vita segregato dentro un recinto in cui l’individualità e la volontà sono state annientate, i diritti e la dignità cancellati, lo rende incapace di affrontare e gestire nuovi inediti spazi di libertà; e allora entrare fuori suscita timore o addirittura incute paura.
Dunque, entrare in uno spazio di libertà fuori dai muri che escludono, uscire dai recinti dentro la città finalmente libera, scevra dai pregiudizi, dagli stereotipi, dallo stigma che troppo spesso colpisce il diverso, sia esso il malato mentale, il migrante, il disabile.
Muri, barriere, recinti. Luoghi di segregazione, abissi di incomprensione, recessi di indifferenza, istanze di pregiudizio, strumenti di emarginazione. Sistema di potere.
E poi un altro muro, un muro speciale, che è al contempo recinto, barriera, riparo: il muro del Ferri, la sezione giudiziaria del manicomio di Volterra. Lì, dal 1959 al 1961 e dal 1968 al 1973, è stato internato Fernando Oreste Nannetti.
Durante quel tempo NOF 4, così si firmava, ha graffito con la fibbia della cintura del panciotto un muro lungo 70 metri: un muro che diventa un libro, il libro di una vita — la sua — trascorsa tra i muri invalicabili dell’orfanotrofio prima, del carcere e del manicomio poi: il libro di una vita negata.
La scienza psichiatrica è in grado di dare un nome a sindromi, malattie e disturbi psichici, che, largamente descritti e documentati, permettono non solo di definire delle categorie psichiatriche, ma anche e soprattutto consentono di codificare la norma.
Il disagio psichico configura così non soltanto una sofferenza individuale, personale, ma si proietta in una dimensione sociale, in quanto il malato in questa logica appare come un reietto, un residuo della società.
L’ospedale psichiatrico lo trasforma in un oggetto, nega la sua individualità, cancella ogni senso di appartenenza, lo condanna alla promiscuità e dileggia ogni bisogno di intimità.
Ecco dunque un uomo solo che, mentre gli altri internati, durante l’ora destinata all’aria aperta, chiacchierano, giocano a carte, litigano, si apparta e scrive. Scrive instancabilmente con una grafia spigolosa e quasi illeggibile, trascura le convenzioni della scrittura, e scrive.
Fernando Oreste Nannetti scrive ogni giorno su quel muro facendone un libro di pietra.
Molta Follia è il più divino Senno -
A un Occhio perspicace -
Molto Senno -
la più assoluta Follia -
È la Maggioranza
In questo, come in Tutto, a prevalere -
Approva -
e sei sano -
Obietta -
e sei subito pericoloso -
E trattato con Catene –
Innocua Disperazione è quella che urla -
Il Tormento è frugale.
Si mette severo da parte
Per l'esame di se stesso.
Nessun'Anima può essere presidiata
Sul Fronte della Sofferenza -
L'Amore è uno, non aggregato -
Nè doppio è il Morire -


Fatta eccezione per quell’ora all’aria aperta trascorsa nel cortile dell’ospedale psichiatrico, gli internati sono stipati dentro ambienti angusti e parcellizzati. Trascorrono giornate tutte uguali, immersi nel caos e nel baccano delle loro grida, lamentazioni, deliri: un altro muro, un muro di isolamento e incomunicabilità a cui la loro malattia li ha condotti e che impedisce loro qualsiasi forma di relazione umana.
Ecco dunque che Nannetti si isola, cerca riparo in un mondo interiore, lo costruisce, lo esprime attraverso un racconto la cui intimità è difesa e nascosta dietro una grafia quasi illeggibile: sceglie l’introspezione e il monologo interiore, il ripiegamento e il silenzio. Il soliloquio lapidario.
Non dirò:
che il silenzio mi soffoca e imbavaglia.
Zitto io sto e zitto resterò:
la lingua che io parlo è d’altra razza.
Si ammucchiano parole consumate, ristagnano,
cisterna d’acque morte,
acide pene in fango trasformate,
melma fangosa con radici storte.
Non dirò:
che non meritano neppure lo sforzo d’esser dette,
parole inette a dire quanto so,
qui nel rifugio in cui non mi conoscono.
Non solo fango e melma si trascinano,
non solo bestie, morti, paure galleggiano,
turgidi frutti in grappoli
s’intrecciano nel nero pozzo da dove affiorano dita.
Dirò solo:
stizzosamente appartato e muto,
che chi tace quanto io ho taciuto
non può morire senza dire tutto.
Le parole sono nuove: nascono quando
In aria le lanciamo in cristalli
Di delicate o dure risonanze.
Siamo uguali agli dei, quando inventiamo
Nel deserto del mondo questi segni
Come ponti che abbracciano distanze.


Su quel muro, NOF 4 traccia minuziosamente segni e disegni fino a coprire l’intera superficie di un racconto intenso e dolente. In quel racconto c’è forse qualche frammento di un'esistenza vissuta dentro uno spazio chiuso da muri insormontabili, ma c'è soprattutto un racconto fantastico che dà forma a un universo immaginario fatto di voli spaziali e collegamenti telepatici, un mondo irreale di cui lo stesso Nannetti entra a far parte e diventa “colonnello astrale”, o “ingegnere astronautico minerario nel sistema mentale”, o ancora “come una farfalla libero”.
Ma il suo racconto è difficile da decifrare: le frasi sono scritte senza soluzione di continuità, le parole sono poste una dopo l’altra senza spazi che le separino; la scrittura è bustrofedica; le lettere sono di forma spigolosa e irregolare; le righe del testo non hanno sempre un andamento lineare: quando incontrano un ostacolo sul muro, una panchina o un altro malato, ne seguono il contorno.
Decifrare e comprendere quel racconto misterioso richiede un lavoro complesso e minuzioso che non sempre è sufficiente. Davanti a quel muro dobbiamo fermarci, Nannetti ci spiazza, ci costringe a riflettere, ci impone di posare lo sguardo su quel muro davanti al quale siamo obbligati a interrogarci perché su di esso sono scolpiti il dolore infinito e l’immensa solitudine di un uomo.
Da me alla stella un passo mi separa:
due lampi della luce che disperse
nello scoppio casuale della nascita,
tra la notte che fu e che dovrà essere,
la gloria solare del pensiero.


Produce instancabilmente: quando può servirsi di carta e penna dà vita a ben 1600 lavori. Scrive cartoline nelle quali applica le convenzioni della scrittura rispettando la sintassi e l’ortografia e riproduce la forma epistolare.
Ci dà dunque la prova che i caratteri spigolosi, la scrittura bustrofedica sono il frutto di una scelta. La scrittura di Nannetti è difficile da decifrare perché vuole essere difficile.
Nannetti rende criptico il suo racconto; le sue elucubrazioni sono un grido di dolore, il dolore di un uomo intrappolato in uno spazio che nega la sua identità, annulla la sua soggettività, cancella ogni senso d’appartenenza.
Quando stanno morendo, i cavalli respirano,
quando stanno morendo, le erbe si seccano,
quando stanno morendo, i soli si bruciano,
quando stanno morendo, gli uomini cantano delle canzoni.

Il muro di Nannetti, oggi quasi completamente distrutto, riprodotto in plexiglas, è esposto presso il Museo Laboratorio della Mente di Roma.
Proprio quel muro graffito che scuote le coscienze, che ricorda a chi lo osserva tutto il dolore e l’ingiustizia di un mondo in cui tanti muri sono stati innalzati per dividere, imprigionare, segregare, quel muro deve continuare a esistere e deve essere per noi simbolo, immagine emblematica.
Un segno che, mentre ci ricorda ciò contro cui dobbiamo lottare — la discriminazione e il pregiudizio, l’esclusione e l’emarginazione — al contempo evoca e riafferma il valore della diversità, della libertà e dell’uguaglianza, principi indispensabili per costruire un mondo senza muri, un mondo in cui quei principi non siano prerogativa dei più fortunati, ma diventino appannaggio di tutte le donne e di tutti gli uomini.
Nessuna Ruota può torturare me -
La mia Anima - in Libertà -
Dietro quest'Ossatura mortale
Ne è saldata Una più vigorosa -
Non si può forare con la Sega -
Né trafiggere con la Scimitarra -
Due Corpi - dunque vi sono -
Legane Uno - L'Altro vola -
L'Aquila del suo Nido
Non si libera più facilmente -
E guadagna il Cielo
Di quanto puoi Tu -
A meno che Tu stesso sia Il tuo Nemico -
Prigione è la Consapevolezza -
Così come è Libertà.
Linguaggi
Una libreria. Una piccola libreria indipendente e la comunità dei suoi frequentatori: lettrici e lettori, tra i quali artisti, pittori, scrittori, amanti della poesia e della letteratura in genere. E poi, il libraio, Alessandro Elia. Ideatore e regista o, forse, deus ex machina di un’iniziativa nuova e innovativa: l’installazione Linguaggi, allestita presso la libreria Aura e aperta al pubblico dal 17 settembre, quando sarà inaugurata, fino al 17 ottobre.
Tredici opere pittoriche, quindici poesie, nove voci che le interpretano. Linguaggi diversi: il segno e il colore, il suono e la parola poetica, ciascuno con la propria grammatica. Per evocare ricordi, tratteggiare paesaggi, suscitare sentimenti, riaccendere passioni. Per risvegliare la nostra sensibilità, per riavvicinarci all’eco lontana di un passato ormai estinto, per imprimere uno slancio più impetuoso al nostro desiderio di futuro.
Poesia e pittura: linguaggi che si inseguono. Ora l’una, ora l’altra. Non l’una ancella dell’altra, non la pittura che illustra la poesia, ma linguaggi che, nel processo creativo, si intersecano, si coniugano, si integrano, fino a costruire una sorprendente alchimia di sensazioni alimentata dal gioco raffinato, inopinato, delle forme, dei colori, dei suoni, delle voci che si susseguono, si sovrappongono, si avvicendano, si inseguono senza fine.
I poeti: Velimir Chlebnikov, Osip Mandel’stam, Sergej Esenin, Gabriele D’Annunzio, Eugenio Montale, Vincenzo Cardarelli, Pedro Salinas, Charles Baudelaire, José Saramago. Poeti eccezionali, figure di rilievo indiscusso nella letteratura del Novecento, la cui notorietà non ha limiti, ma anche autori meno noti che tuttavia sono stati geniali protagonisti della ricerca letteraria dello scorso secolo.
Non solo: un nome di spicco fra gli scrittori contemporanei, Francesco Randazzo, artista poliedrico, dalla multiforme esperienza artistica e autore di una variegata produzione letteraria, presente con il duplice contributo di autore e di interprete. Infine, un autore celato dietro il nome di Allan Riger-Brown, presente e accessibile sul web.
A questi poeti prestano la propria voce lettori appassionati: Anna Lea Antolini (L'albatro), Martina Borgioni (Per un amore perduto), Maria Paola Cecchini (Poesia a bocca chiusa), Loredana De Luca (Pietra, Trittico Chlebnikov, Sul piatto azzurro del cielo, Le tue gracili spalle), Deborah Della Porta (Poco mi serve, Un bacio rubato), Rossana Veracierta (Gabbiani), Marilda Zonarelli (Il modo tuo d'amare) e, last but not least, il giovanissimo e valente Michele Elia (La pioggia nel pineto), oltre al già citato Francesco Randazzo (Non chiederci la parola).
Gli artisti: Daniela Avaltroni (Per un amore perduto), Simona Benedetti (Poesia a bocca chiusa), Beatrice Bonaiuto (Gabbiani), Monica Buccilli (La pioggia nel pineto), Concetta Cappelletti (Un bacio rubato), Rosanna Chiani (Il modo tuo d'amare), Stefano Cianti (Le tue gracili spalle), Solveig Cogliani (Trittico Chlebnikov), Raffaela Cristofari (Sul piatto azzurro del cielo), Fiorenza D’Orazi (Pietra), Pasquale Marino (Non chiederci la parola), Paola Sanna (Poco mi serve), Riccardo Sanna (L'albatro). Portatori ciascuno di una diversa formazione, di un diverso percorso di ricerca artistica, ma tutti animati da una profonda passione per l’arte.
Le loro opere, nel rivelare il loro talento, danno vita e voce nuova ad altre opere, attivano letture inattese e, di rimando, acquistano altro senso in un dialogo irreale che tuttavia arricchisce, ci arricchisce, nello scambio libero e infinito.
Artisti. Pittori e poeti. Poesia e pittura. Linguaggi.
Loredana De LucaMostre artistiche ospitate nella libreria

























